"Tutto tremava al suono della sua voce, i vetri, i mobili e la gente. Il suo viso largo, crivellato di lentiggini, aveva l'aspetto di un colabrodo. Aveva un po' di barba. Era un facchino dei mercati generali vestito da donna. Bestemmiava splendidamente; si vantava di spaccare una noce con un pugno. Senza i romanzi che aveva letto a nessuno sarebbe mai venuto in mente di dire di lei: È una donna. Questa Thénardier era come il prodotto dell'innesto di una donna di facili costumi su una pescivendola. Quando la si sentiva parlare, si diceva: È un gendarme; quando la si guardava bere, si deceva: È un carrettiere; quando la vedeva maneggiare Cosette, si diceva: È il boia.
In riposo, le usciva di bocca un dente".
Hugo si prende tutto il tempo del mondo per delle lunghe digressioni (verso pagina 1300, quando già si intravvede la fine, incomincia una riflessione interminabile sul sistema fognario parigino che mette alla prova i nervi del lettore) fra le quali la più memorabile è quella su Waterloo nel quale emerge un'estetica della guerra che mi fa pensare a Stanley Kubric.
Finalmente capisco come si concilia lo spirito della rivoluzione francese con l'imperialismo napoleonico.
L'influenza di Beccaria è dichiarata. Quella di Manzoni immaginabile.
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Questo libro è il canone del romanzo ottocentesco. Mi chiedo se a distanza di due secoli abbia ancora senso una letteratura basata esclusivamente sulla trama. A Hugo perdoniamo facilmente le coincidenze inverosimili, il moralismo, come perdoniamo l'ingenuità dei film dell'epoca d'oro di Holliwood, ma una letteratura che continua a ripetere gli stessi canoni (a volte senza neanche saperlo) è una condanna. È come guardare una foto della Gioconda. É il mito della caverna. Ha senso scrivere storie dopo "Ulisse"? E dopo Kafka?
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